Percorsi di consapevolezza e potenziamento delle risorse di regolazione emotiva
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La concentrazione sul respiro
Le pratiche di concentrazione sul respiro che è possibile apprendere nel nostro percorso sono desunte dallo yoga, dal buddismo e dal taoismo, ma anche dai risultati di ricerche scientifiche occidentali che hanno studiato tali pratiche e i loro effetti. Mircea Eliade (1948, 1953) è una guida preziosa per la comprensione della tecnica del controllo del ritmo del respiro: prāṇāyāma. Questa tecnica viene descritta in modo essenziale nello Yoga-Sūtra di Patañjali, un testo mistico-filosofico indiano in 196 aforismi datato tra il I secolo a.C. e il V secolo d.C, e soprattutto nei commenti successivi di filosofi induisti successivi. La parola prāṇāyāma è formata da prāṇā (respiro, vita, forza) e yāma, da ayāma (lunghezza, controllo, espansione). Il significato di prāṇāyāma è quindi: controllo ed espansione del respiro.
Così Eliade (1948) illustra la tecnica più tradizionale del prāṇāyāma:
Il ritmo della respirazione lo si ottiene armonizzando tre “momenti”: l’inspirazione (puraka), l’espirazione (recaka) e la conservazione dell’aria (kumbhaka). Questi tre momenti dovevano occupare ciascuno un tempo uguale. Con la pratica, lo yogin arriva a prolungarli per un tempo notevole: ché infatti, come dichiara Patañjali, scopo del prāṇāyāma è di trattenere la respirazione quanto più a lungo è possibile, al che si giunge rallentandone progressivamente il ritmo.
Il prāṇāyāma ha effetti significativi sullo stato affettivo. Diversi studi hanno mostrato come la pratica regolare del prāṇāyāma è correlata con una riduzione significativa dell’ansia e degli affetti negativi, e con un miglioramento significativo del senso di benessere generale (Brown, Gerbarg e Sudarsha, 2005; Novaes, Palhano-Fontes, Onias et al., 2020; Singh, Paswan, Singh & Kumari, 2024). In Il corpo accusa il colpo, van der Kolk (2014) descrive un suo studio sull’utilizzo dello yoga sul funzionamento psicologico di un gruppo di soggetti volontari di genere femminile con gravi storie traumatiche precedentemente sottoposte a psicoterapie senza trarne significativi benefici.
Chi kung
Una miscela di prāṇāyāma e concentrazione sulla postura si realizza nella pratica del chi kung. L’espressione chi kung può essere tradotta come “allenamento disciplinato (kung) della propria forza vitale (chi)”. Il termine chi è polisemico. Si riferisce alla forza vitale dell’organismo, a una sorta di corrente elettrica che per il taoismo alchemico cinese scorre nel nostro corpo, all’aria che inspiriamo ed espiriamo. Gli esercizi di chi kung sono molti, ma hanno in comune la coordinazione tra mente e corpo, intenzionalità e respirazione.
Se eseguite correttamente, le pratiche di chi kung permettono di realizzare un fisiologico allineamento tra i diversi segmenti articolari; questo produce la sensazione soggettiva che l’impalcatura muscolo-scheletrica si comporti come una struttura autoportante, ossia si “regga su se stessa” senza alcuno sforzo. I muscoli possono così rilassarsi dalle tensioni, pur mantenendo il grado minimo di tensione tonica necessario per rimanere in posizione ortostatica. Le microtensioni muscolari vengono facilmente rilevate dal praticante; cresce la capacità di cogliere tensioni subliminali che attraversano il corpo; per esempio, il praticante diviene propriocettivamente consapevole di una lieve contrazione delle spalle, o di un impercettibile corrugamento della fronte, ecc. Cogliere queste tensioni permette di rilassarle consapevolmente: la postura chi kung diviene così un allenamento a cogliere gli elementi sottili dello stato corporeo che si generano nel contesto della reazione affettiva subliminale agli eventi esterni e interni; e a modulare tali elementi.
Il prof. G. Salvatore, direttore dello Studio Maya, pratica il chi kung da molti anni, e ha avuto l’opportunità di studiarlo in Cina, presso l’Università di Pechino e il Monastero di Shaolin, nel Nord della Cina.
Presso lo Studio Maya, insegna personalmente questa disciplina e le pratiche di concentrazione sul respiro.

Stress ormetico
Per ormesi (dal verbo greco ὁρμάω, ormao, che significa stimolare, eccitare). L’ormesi è un fenomeno biologico per cui un effetto benefico (miglioramento della salute, tolleranza allo stress, longevità) deriva dall’esposizione a basse dosi di un agente o una condizione – lo stress o stimolo ormetico – che può risultare tossico o letale a dosi più elevate. La risposta ormetica di un sistema biologico è il meccanismo con cui esso si adatta a basse dosi di stimoli ambientali dannosi. Queste condizioni dannose comprendono non solo le sostanze tossiche, ma anche qualsiasi stimolo ambientale con conseguenze potenzialmente deleterie per l’organismo; per esempio un aumento o una diminuzione della temperatura.
Il metodo di Wim Hof rappresenta una forma di stress ormetico. Esso include, oltre a un aspetto di mindset, consistente in una peculiare determinazione a sottoporsi allo stress ormetico, due elementi: 1) la tecnica respiratoria e 2) l’esposizione al freddo. La combinazione di questi elementi risulta particolarmente efficace per promuovere nei pazienti e nei terapeuti la capacità di regolare gli stati di sofferenza e radicarsi in uno stato di quiete interiore e consapevolezza.